FEDERIGO ENRIQUES ( Bologna, Università)
INSEGNAMENTO DINAMICO
PERIODICO DI MATEMATICHE
, 1921, p. 6-16

(cfr. gld56; le [ ] rimandano, con link, alle note di gld565)
[il 2010-10-01 ho aggiunto ; dopo "La domanda pare ingenua e non è"
modificando conseguentemente l'impaginazione]
[il 2010-10-05 ho aggiunto la nuova nota 8 e corretto mettendo la e in lontane (di ipotesi lontane) e , dopo divinamente]


      1. Le cose che mi propongo di dire in questo articolo sono così note,
tanto spesso ripetute da quanti si occupano di pedagogia e di didattica,
che sento forte il bisogno di giustificare la convenienza del mio discorso.
Infatti ci sono delle verità
che strappano quasi da ognuno qualche omaggio teorico,
ma che sviluppate nelle loro conseguenze o addirittura messe in pratica,
appariscono talvolta sotto una luce impensata,
come concezioni nuove ed ardite,
o peggio come paradossi imbarazzanti e pericolosi.

      A questo numero, se non m'inganno, appartiene la verità,
tante volte conclamata,
che l'insegnamento non può essere un regalo
che il maestro faccia a qualcuno
che viene ad ascoltare le sue ben tornite lezioni
(che, se sta disattento,
merita di essere rimproverato per la sua ingratitudine!);
ma è piuttosto un aiuto a chi voglia imparare da sé
e però sia disposto,
anziché a ricevere passivamente,
a conquistare il sapere,
come una scoperta o un prodotto del proprio spirito.
Dico aiuto ai discepoli di buona volontà,
senza escludere che questa stessa volontà venga stimolata
e quindi fortificata dall'insegnante che,
coll'esercizio graduato,
riesce ad educare le attività spirituali,
mostrandone il successo possibile.

      Chi metterebbe in dubbio la semplice verità sopra enunciata?
Scolari che non vogliono apprendere, voi lo sapete o maestri!,
non si correggono con rimproveri o castighi:
tutt'al più questi possono distogliere un momento l'allievo
da altro oggetto che solleciti la sua attenzione,
farlo rientrare in sé, ascoltare, meditare;
ma tutto ciò è affatto inutile se nello stesso momento
non si riesca a suscitare nella sua mente un più alto interesse,
capace di muoverla.

      Pure quella verità elementare viene talvolta dimenticata,
e nelle discussioni teoriche sull'insegnamento,
e nella pratica della scuola.


      2. Quando, per esempio, si discute dei fini dell'insegnamento,
contrapponendo uno scopo utilitario a uno scopo formativo,
ovvero quando si tratta del valore delle Matematiche
come mezzo ad educare l'intuizione o la logica,
mi pare che la veduta dinamica dello spirito
non sia sempre presente davanti agli occhi.

      Infatti la controversia sull'utilitarismo
- tutta assorbita dalla più o meno stretta misura della scienza
in rapporto alle applicazioni pratiche -
perde di vista che, finalmente,
la cosidetta applicazione di una verità scientifica
implica pure una capacità applicativa,
che la vita domanda appunto di formare.
E la polemica antiutilitaria
di coloro che esaltano il valore artistico della scienza,
come valore in sé,
disconosce a sua volta che l'interesse pratico
(nella vita degli individui come nella storia delle società)
può ben creare gli oggetti cui si volgerà la contemplazione artistica,
quand'anche si ammetta che questa risponda
ad una tendenza originaria della psiche
anziché ad un sentimento secondario suggerito da motivi pragmatici.
Voglio dire che,
se in un certo senso ogni scuola professionale è anche
- in qualche grado e modo -
formativa,
per contro la scuola più eminentemente formativa
deve sapersi valere delle applicazioni pratiche,
per suscitare l'interesse dei discepoli meno sensibili
alla bellezza della teoria astratta,
ed anche per educare l'abito a riconoscere l'astratto
nelle particolari esemplificazioni concrete,
posto che la nostra scuola non debba servire
agli abitanti dell'isola di Laputa!     [1]

      3. Anche la domanda consueta,
se le Matematiche debbono educare piuttosto
l'intuizione o la logica,
è viziata per una imperfetta visione del valore dell'insegnamento.
Infatti il presupposto di codesta domanda
è che logica ed intuizione si lascino separare
come facoltà distinte dell'intelligenza,
laddove esse sono piuttosto
due aspetti inscindibili di un medesimo processo attivo,
che si richiamano l'un l'altro.

      Odo spesso lamentare che l'intelligenza dei giovani discepoli,
sufficientemente atta a comprendere le conoscenze intuitive,
repugna dalla logica;
onde taluno ne trae che importa dunque correggere il difetto,
con un insegnamento rigoroso dei principii,
sia dell'aritmetica, sia della geometria.

      Non si affaccia l'idea che un'educazione logica
(anzi la più appropriata alle menti poco disposte ad astrarre)
è pur contenuta nell'esercizio dell'intuizione,
quando questa venga messa alla prova facendo lavorare il discepolo.
Così, per esempio, la costruzione di una figura geometrica,
importa - non solo -
l'attitudine a vedere passivamente un modello
che si metta sott'occhio allo studioso,
ma anzi la capacità di foggiare
- come oggetto della fantasia -
un modello possibile,
cui s'impongono, a priori, talune condizioni:
ed una tale attività costruttiva,
che ordina i dati di osservazioni ed esperienze passate,
non è pura fantasia o fantasticheria,
sciogliente il freno al libero giuoco delle associazioni d'idee,
bensì vera attività logica.
Per il qual motivo,
soltanto un forte, spirito logico
- un Edgard Poe, un Verne o un Wells -
può creare romanzi fantastici
in cui si mantenga la coerenza d'ipotesi lontane dalla realtà!

      Scelgo come secondo esempio, la "messa in equazione",
cioè la traduzione in termini algebrici o aritmetici,
dei problemi di geometria e di fisica;
e non ho bisogno di rilevare l'importanza dell'argomento,
che costituisce uno scopo essenziale dell'istruzione matematica.

      Ora, se tanti giovani non riescono a superare questa difficoltà,
diremo che difettano di intuizione o di logica?

      Non sarebbe facile rispondere,
e prima di tutto dobbiamo domandarci,
se e come all'allievo fu fatto
comprendere che cos'è l'equazione di un problema.
Non metto in dubbio che l'insegnante
abbia lungamente spiegato quest'argomento;
ma quand'anche l'allievo sia reso capace di ripetere la spiegazione,
non basta ancora per dire che l'abbia compresa,
giacché comprendere significa divenir atti ad applicare:
e tale attitudine si svolge solo come frutto di un lavoro attivo.

      Di nuovo, domanderemo, questo lavoro fa appello
alle facoltà intuitive o alle facoltà logiche dell'intelligenza?
Ma l'analisi non riesce ad isolare
ciò che resta immancabilmente muto nella vita dello spirito.
Infatti, se si riflette che applicazione della regola significa
deduzione dal generale al particolare,
si è tratti a riguardare l'esercizio anzidetto
come un atto del pensiero logico;
ma per contro,
se si bada che la nostra applicazione importa un modo di figurare la realtà,
cogliendo certe analogie
onde le immagini foggiate si lasciano ridurre sotto la specie di noti concetti,
riesce difficile disconoscere che si tratta anche
di lavoro della fantasia.

   4. Qui mi assale il dubbio che la concezione della logica,
supposta nei precedenti giudizii,
non si accordi con quella del lettore;
il quale, perciò, stenti a comprendere il valore dei miei argomenti.
E pertanto mi occorre dichiarare che la logica comprende più aspetti
che di solito non si abbiano in vista dagli insegnanti di matematiche.
Vi è, se così è lecito esprimersi,
una logica in piccolo ed una logica in grande:
intendo l'analisi raffinata del processo del pensiero esatto
(quasi la veduta microscopica degli elementi
che formano il tessuto della scienza),
e - per contro - lo studio delle connessioni organiche del sistema,
cioè la veduta macroscopica della scienza.

      Ora io temo che, nelle preoccupazioni dei nostri educatori matematici,
la logica in piccolo tenga troppo posto
in confronto alla logica in grande!

      Ciò dipende, in primo luogo, dalla malintesa separazione
che si suol fare da noi fra matematiche e fisica.
Ed inoltre dall'abito troppo analitico
della maggior parte dei nostri insegnanti,
frutto anch'esso di un'educazione particolaristica.

      A mio avviso ciò che si deve richiedere all'insegnamento matematico,
concepito come formativo delle facoltà logiche,
è prima di tutto di svolgere lo spirito di coordinazione,
in quella forma che ho chiamato macroscopica.
Ciò esige che il maestro vigili continuamente a legare fra loro
le diverse parti del suo insegnamento:
lezioni isolate l'una dall'altra,
capitoli succedentisi l'uno dopo l'altro
senza che mai se ne richiami la connessione,
se pure accuratamente studiati nei più fini particolari,
mal gioveranno allo scopo.

      Con questa osservazione credo di mettere il dito
sulla piaga più grave del nostro insegnamento,
non soltanto matematico.
Troppe volte mi è occorso - per esempio - di rilevare
che gli insegnanti di storia affaticano inutilmente gli allievi
costringendoli ad apprender nomi, date, particolari minuti,
che dovranno esser dimenticati
(oh benedetto fiume di Lete       [2]
a cui dobbiamo la salute del nostro cervello!)
mentre non si curano di promuovere da parte loro
la ricostruzione semplificata dello sviluppo storico
nelle sue grandi linee.
Una dannosa menzogna convenzionale
sta alla base di questi metodi didattici,
ed ogni giorno se ne raccoglie il frutto nella ignoranza
che ad ognuno è dato constatare:
si interroghi a caso un giovane
che ha finito da qualche mese o da qualche anno gli studi liceali,
se gli accada di ricordare
- non dico quei particolari più o meno insignificanti
di cui sopra ho discorso -
ma soltanto quali furono le guerre principali
da cui fu travagliata l'Europa durante l'evo moderno,
e - a larghissimi tratti -
quali ne furono le cause generali e le conseguenze!

      Io ho fatto la prova ripetutamente,
e non mi è valso neppure il tentativo
di suggerire a qualche giovane una preparazione più razionale,
con opportuni riassunti,
così da acquistare un minimum conservabile di cultura storica;
giacché il suggerimento non è stato accettato:
infatti la cultura richiesta è troppo poco,
ma anche troppo,
per l'esame!

      Ciò che ho detto per la storia vale, mutatis mutandis,
per le matematiche.
Non giova sviluppare con impeccabile deduzione
la serie dei teoremi della geometria euclidea,
se non si ritorni a contemplare l'edifizio costruito,
invitando i discepoli a distinguere
le proprietà geometriche veramente significative
(p. es. la somma degli angoli d'un triangolo
e il teorema di Pitagora)
da quelle che hanno valore soltanto come anelli della catena.
Quella specie di uguaglianza democratica
che qualche maestro pretende stabilire fra le proposizioni dimostrate,
col pretesto che tutto è importante
e perciò di nulla si può perdonare l'oblio,
riesce soltanto a deformare le intelligenze
privandole del lume della valutazione, sicché
- pigliando a prestito le parole d'un filosofo -
la scienza che si offre in tal guisa allo studioso
si potrebbe dire
"l'infinita notte, in cui tutte le vacche sono nere".       [3]

   5. Tutto ciò io dicevo a proposito dell'educazione logica.
E di nuovo mi pare che
più d'uno voglia levarsi ad avvertirmi di un equivoco:
che la logica, per lui, ha un senso più ristretto,
ma anche più preciso;
che egli intende parlare di quello spirito d'inibizione
onde la mente riesce a fissare concetti astratti
deducendone nuove proprietà da alcuni principii ben definiti,
senza bisogno di rievocarne l'immagine colla fantasia,
aiutata magari da un oggetto sensibile.
Appunto per educare questo spirito logico,
si chiede da taluni la critica rigorosa
delle definizioni e dei postulati,
e - nello sviluppo delle teorie -
quella analisi del ragionamento esatto,
che sembra quasi io voglia sprezzare come "logica in piccolo".

      Ma lungi dal disprezzare "il microscopio",
io so pure di quanto la scienza gli vada debitrice.
E le ricerche personali nel campo della critica,
e il lavoro compiuto per offrirne i principali resultati
in una raccolta di scritti specialmente rivolti agli insegnanti,       [4]
mi dispensano da aggiungere
qual conto faccia di codesto ordine di questioni.
Però, quando si tratta - non più di preparare il maestro -
bensì di portare la stessa critica nella scuola media,
occorre serbare almeno una savia misura:
senza rinunziare in modo assoluto ad educare nei giovani
anche il più fine senso del rigore logico,
si ricordi in ogni caso la vanità dello sforzo
che s'imponga al discepolo in nome di esigenze
che a lui non sia dato comprendere.

      Analisi raffinate
che altri accetti come puro oggetto di apprendimento mnemonico,
perché - non afferrandone lo scopo -
è incapace di ricostruirle, nemmeno in parte, come cosa propria,
perdono affatto ogni valore di esercitazione logica.

      Perciò, l'educazione del senso logico dovrà sempre procedere per gradi,
dal concreto all'astratto:
e del ragionamento astratto,
non sorretto dall'intuizione,
si dovrà a poco a poco far sentire l'importanza,
incominciando - per esempio -
dall'adoperare dimostrazioni per assurdo,
dalle quali appunto la logica trae la sua origine storica.
Solamente al termine d'un corso di geometria
riguardando al sistema della scienza,
gioverà spiegarne l'organismo logico,
rilevando il significato dei concetti primitivi e dei postulati,
coi quali si deve cominciare un trattato scritto
(perché la forma dogmatica compiuta dell'insegnamento razionale
non consente lacune o ritorni)
ma non la lezione viva,
che lascia dietro di sé quei principii,
avvertendo il discepolo che contengono soltanto
una ricapitolazione precisa di cose note,
da richiamare di mano in mano che se ne presenti il bisogno.

    6. Al concetto dinamico dell'insegnamento
si affaccia da qualcuno un'obiezione che deve essere esaminata.
Si dice:
anche certe cose difficili,
che non è dato comprendere coll'intelligenza in una tenera età,
importa apprenderle,
a ciò che restino nella memoria
e si richiamino più tardi dalla mente più matura:
tantum discimus quantum memoriae mandamus.       [5]

      In nome di questo principio si chiede ai giovanetti
di imparare a memoria componimenti poetici
che coll'armonia del verso susciteranno nell'animo
un indistinto fremito musicale,
prima che la bellezza delle immagini create dalla fantasia artistica
balzi viva nello spirito consapevole dello studente.
E ancora per lo stesso motivo,
razionalmente si opina
che lo studio delle lingue classiche valga ad educare il senso logico
in un'età in cui ogni altro mezzo di esercitazione,
fuori della grammatica,
riuscirebbe impossibile.
Così pare che a torto abbiamo dispregiato l'insegnamento passivo,
che mira - a suo modo - a sviluppare lo spirito,
preparando nella memoria i dati
che esso avrà ulteriormente da elaborare.

      Vi è in quest'argomento qualcosa di vero,
cioè che una educazione razionale può preparare
talune coordinazioni o associazioni mnemoniche,
anche prima che esse assumano il loro più alto significato
come rapporti d'idee,
nell'intelligenza matura dello studioso.
In ispecie nelle scienze fisiche e matematiche,
l'uso di una certa tecnica
(disegno, esperimento, calcolo numerico o letterale)
costituisce una propedeutica necessaria a lavori d'ordine più alto,
dove - mancando il possesso degli strumenti -
il pensiero smarrirebbe la veduta di ciò che è essenziale raggiungere.

      Ma non si creda che memoria significhi pura ricettività dello spirito!
Nel suo bel libro "Physiology of common life"
(che oggi si ha il torto di non leggere)
il LEWES ha indicato la genesi dei riflessi nervosi:       [6]
questi atti che seguono immancabilmente
come "risposte" a certi stimoli,
non sono che il residuo di atti inizialmente voluti,
che - a poco a poco - si sono fissati
nell'evoluzione della vita dell'individuo o della specie.
Proprio questo fissarsi,
dando origine a determinate coordinazioni di movimenti dell'animale,
è il fatto fondamentale della memoria organica
che riproduciamo consapevolmente in tutti quegli esercizii
(come il nuoto, la bicicletta o il pattinaggio)
che implicano appunto un certo adattamento mnemonico degli organi:
qui infatti si tratta di ritrovare, come per istinto,
un equilibrio turbato,
ripetendo quegli atti che imparammo a compiere
dapprima con uno sforzo cosciente della volontà.
Ora anche la memoria psicologica rientra nel nostro quadro più generale,
come dimostra l'analisi de "Les maladies de la mémoire"
istituita dal RIBOT:       [7]
anche in questo caso la memoria non è un fenomeno ricettivo
(lo stamparsi di certe impressioni nella cera molle)
ma un coordinamento di attività che, ripetendosi,
tende a divenire meccanico,
cioè ripetibile ulteriormente senza il pensiero.

      Dunque l'importanza riconosciuta all'educazione della memoria
non contraddice, anzi conferma,
il concetto dell'insegnamento dinamico.

      Volete che il giovane studente di matematiche acquisti di buon'ora
il maneggio del calcolo algebrico,
acciocché questo istrumento non gli manchi poi
nella risoluzione dei problemi che gli saranno proposti?
Consento che a ciò sia utile insegnare il più presto possibile,
in un'età in cui ancora non si saprebbe comprendere
i più vari usi a cui la stessa algebra è chiamata:
ma per raggiungere lo scopo dovete ancora far lavorare il ragazzo;
bisogna spiegargli prima
(con esemplificazioni che egli stesso dovrà variare a volontà)
quale sia il significato delle "lettere" messe al posto di numeri,
e poi fargli osservare le regole di combinazione,
quasi come un giuoco, che
- con una certa abilità -
si riesce a rendergli discretamente interessante,
e quindi accettabile.
Solo quando il discepolo avrà appreso a ripetere queste combinazioni,
in modo da riuscirvi senza più pensare,
potremo dire che egli ha acquistato il maneggio del calcolo,
fissandolo nella memoria:
allora egli avrà costruito, per così dire,
una macchina calcolatrice,
che successivamente il suo pensiero potrà adoperare a diversi fini
senza essere costretto ogni volta a ritornare
sui motivi delle associazioni già fissate.
Qui il pensiero vivo si svolge sul pensiero morto,
da cui trae - per così dire - una regola economica di condotta.
Ma il pensiero morto non fu travasato
dalla testa del maestro a quella del suo ascoltatore;
bensì dovette vivere a sua volta nella fatica dell'esercitazione!

    7. Ora, come faremo a mettere in pratica la didattica dinamica,
che fin qui si è cercato di spiegare
come criterio direttivo della discussione teorica?

      Ho avuto la fortuna di assistere
a qualche lezione di aritmetica o di geometria pratica,
in cui il docente si metteva a conversare coi ragazzi facendosi       [8]
- anche lui - un poco ignorante,
ricercando insieme con loro,
suggerendo, a tentoni,
la via che essi stessi dovevano percorrere per guadagnare la verità.
E, mentre ammiravo l'intelligente attività della guida,
trascinato anch'io nell'esercizio della scolaresca animata,
mi chiedevo perché lo stesso metodo non si dovesse adoperare
anche con alunni di età più matura ... perché no?,
anche coi giovanotti che vengono a studiare alle nostre università.
Forse che non era questo il metodo di SOCRATE,
ritratto al vivo nei Dialoghi di PLATONE?

      Il più grande vantaggio di questo metodo è, a mio avviso, la sincerità,
perché il postulato dell'ignoranza è infinitamente più vicino al vero
che la presupposizione di conoscenze già sicure nella mente dell'allievo,
da cui muove la lezione cattedratica.

      A rischio di scandalizzare qualcuno,
vorrei domandare perché si usi d'interrogare l'allievo
interdicendogli di guardare il libro di testo
(che pure qualche insegnante tiene davanti agli occhi,
mentre altri, pudicamente, gli ha ridato una scorsa prima della lezione).
La domanda pare ingenua e non è;
perché alle mie interrogazioni,
che sono sempre facili esempi o esercizi sul teorema spiegato,
non vi è salute per chi non ha capito
(e dice di non ricordare)
anche se gli si porge il vano sussidio del libro!
Il terrore del libro diventa addirittura ossessione
per i docenti che sovraintendono all'esame di latino:
ragazzi ricordatevi che potete far uso del vocabolario,
ma la grammatica è severamente proibita ...
A farla apposta gli scolari han sotto il banco
la loro brava grammatica ...
ma non per questo, ahimè!,
vien fuori una traduzione latina maggiormente corretta.
Diamine!
a che varrebbe affaticarsi tanto nello studio di una lingua,
se, col vocabolario e la grammatica alla mano,
potessimo diventar tutti scrittori?

    8. Ho discorso dell'arte d'insegnare e d'interrogare;
molti convengono circa la giustezza di questi criterii didattici;
alcuni, certo, non li hanno sentiti enunciare per la prima volta;
perché dunque è tanto raro di vederli messi in pratica?
Non c'indugiamo a cercar pretesti,
dando tutta la colpa all'infingardaggine degli studenti
(che appunto si tratta di vincere)
o all'obbligo di svolgere un dato programma
con un orario troppo ristretto ecc. ecc.

      Confessiamo francamente che il compito che ci è proposto
è tremendamente, stavo per dire divinamente, difficile.
Infatti se il nostro pensiero e la nostra parola
debbono muovere l'attività del discepolo,
bisogna che qualcosa di vivo che è in noi passi nello spirito di lui,
come scintilla di fuoco ad accendere altro fuoco.
Ma per ciò occorre dunque che anche noi maestri
- nell'atto d'insegnare -
ripetiamo, non già il resultato freddo degli studi fatti,
bensì il travaglio interiore per cui riuscimmo a conquistare la verità,
ricreandone dunque la fatica nello spirito nostro,
che si allarga e trascina insieme la scuola.
Vorrei bene spiegarmi su questo punto:
la fatica di cui parlo è reale, non finzione ad uso didattico;
infatti non è possibile che ripensiamo una difficoltà
che una volta abbiamo vinto,
senza scoprire nello stesso problema qualche altra difficoltà,
che si risolve in una comprensione nuova e più alta;
perché è falso che le cose elementari,
su cui torniamo per insegnarle,
sieno facili al confronto della scienza superiore
il cui possesso ci rende oggi orgogliosi davanti ai nostri scolari;
perché infine
codesto possesso medesimo è dubbio e vano,
ridicolo l'orgoglio,
se di fronte al discepolo ci presentiamo soltanto come discepoli,
a ripetere un po' più meccanicamente la vecchia lezione
appresa sugli stessi banchi,
anziché come maestri,
a recare una veduta nostra, più chiara e più larga.

      Ma forse il senso delle cose ch'io dico
riesce duro a qualcuno dei lettori.
Ci sono dunque diverse maniere di comprendere,
sicché non sia dato mai di riposarsi in una cognizione perfetta?
E come mai la scienza superiore
(le matematiche trascendenti e sublimi
che abbiamo studiato negli anni dell'università)
dovrebbero ritornare - in qualche modo -
a rischiarare la nostra mente,
proprio quando stiamo cercando di farci piccoli coi piccoli,
sui banchi della scuola?

      Rispondo:
non vi è iato o scissura
fra matematiche elementari e matematiche superiori,
perché queste si sviluppano da quelle,
al pari dell'albero dalla tenera pianticina.
E come, riguardando l'albero,
potremo scoprire nella pianticina nuovi aspetti
o comprendere caratteri di cui ci era sfuggito il significato,
così anche lo sviluppo dei problemi matematici
recherà luce sulle dottrine elementari
in cui essi profondano le loro radici.
Ad una condizione però:
che di ogni dottrina si studi
le origini,
le connessioni,
il divenire,
non un qualsiasi assetto statico;
e però che un grado di verità più alto       [9]
serva ad illuminare il più basso da cui è uscito;
che insomma - dopo avere studiato la scienza -
ce ne valiamo per comprendere la storia.
Quale modo più largo di comprensione,
quale più vasta esperienza didattica,
che l'annodarsi dei problemi
e l'urtarsi delle difficoltà
entro lo spirito di tutti gli studenti,
che hanno faticato prima di noi, nella scuola del mondo?